GIORGIO CASTRIOTA “ISKANDER BEG”: RIVISITAZIONE STORICA

Intervento presentato al “Convegno Internazionale di Studi sull’Arberia”
del 14 aprile 2018 a Civita (CS).

Dissertare a proposito del principe Giorgio Castriota Scanderbeg, colui da cui tutto ebbe inizio e senza il quale probabilmente oggi non si parlerebbe di Arberia, è un po’ come parlare di un classico che, come direbbe Italo Calvino, altro non è che un eterno presente.
Credo che non esistano luogo, covile o cuna d’Arberia nel quale non si conosca il suo nome, “dalle Alpi alle Piramidi o dal Manzanarre al Reno” prendendo in prestito parole manzoniane utilizzate per un altro esimio personaggio. Chi non ricorda di aver incrociato almeno una volta una statua a mezzo busto di quest’uomo fiero con elmo bicorno che ha donato all’Albania il simbolo della sua bandiera!
Ma chi era Giorgio Castriota? Mi sono posta questa domanda prima di iniziare a raccogliere informazioni per questo breve intervento, e data la grande mole di materiale di studio reperibile de ipso, la risposta non mi è parsa così facile.
Molti altri aspetti di quella che fu l’eroica vita di Giorgio Castriota Scanderbeg sarebbe stato interessante esaminare, come ad esempio il suo rapporto con i Papi, oppure la sua vincente strategia militare, purtroppo per una questione di tempistiche, premesso che non mi avvalgo del titolo di storico o di cultrice della materia, e dato che si potrebbe discutere dell’argomento per giorni, ho cercato di focalizzarmi sull’uomo, e non sul personaggio storico, soffermandomi sinteticamente su quattro punti salienti:

    • Il rapporto di Scanderbeg con le sue due famiglie
    • Il rapporto di Scanderbeg con i principi albanesi
    • Il rapporto di Scanderbeg con Venezia
    • Il rapporto di Scanderbeg con Alfonso d’Aragona

Giorgio Castriota era nato a Croja, in una data incerta che si colloca tra il 1403 e il 1405. Figlio di Giovanni Castriota, signore di Croja, l’odierna Krujë a nord di Tirana, quando questi fu costretto ad accettare la dominazione turca nel 1413 Giorgio fu portato, insieme con altri tre suoi fratelli, Reposio, Stanisio e Costantino, quale ostaggio alla Corte Ottomana di Adrianopoli, come voleva un’antica consuetudine e una delle clausole firmate per la pace. Si era stabilito, inoltre, tra Giovanni e il Sultano Murad II, che le terre possedute dai Castriota, alla morte di Giovanni, sarebbero tornate ai legittimi proprietari, quindi in possesso di uno dei suoi figli maschi. Per la prestanza e la vivace intelligenza, Giorgio fu subito preso a ben volere da Murad II, che lo fece circoncidere e istruire nella religione musulmana, trattandolo come un figlio e decidendo di non restituirlo più al legittimo genitore. Giorgio si convertì, quindi, all’islamismo, assumendo il nome di “Iskander” (da Alessandro) “beg” (che significava signore, principe) e condusse con valore le forze militari della mezzaluna contro serbi, ungheresi e veneziani, ottenendo le prime prestigiose vittorie. Parlò presto diverse lingue: la turca, l’araba, l’italiana, la greca e la slava. Particolarmente versato nell’arte militare, Giorgio ben presto superò ogni guerriero alla corte di Adrianopoli nel maneggio delle armi, in particolare sciabola e spada, ed a soli diciotto anni Scanderbeg, nominato “Sangiacco bey” (capitano), onorificenza raramente concessa ad un soldato così giovane, si trovò a comandare un corpo di cavalleria formato da 5000 uomini.
Scanderbeg è descritto dal Barleti come alto, forte, corpo perfettamente scolpito, con i classici tratti somatici della stirpe montanara illirica cui apparteneva la sua famiglia. Nonostante la propria privilegiata posizione alla corte del Sultano, e nonostante le rosee prospettive sul proprio futuro, gli atti di barbarie che gli stessi musulmani erano soliti infliggere ai nemici sconfitti, e in particolare ai suoi connazionali albanesi, turbarono molto il giovane condottiero, che però non se la sentì di ascoltare la prima e vera tormentata voce della sua patria, l’Albania, giuntagli dopo che la rivolta albanese del 1435-1438 contro i turchi, comandata da Arianit Comnemo Thopia, futuro genero di Scanderbeg, finì nel sangue. I musulmani con le teste dei soldati uccisi ersero delle piramidi, mentre le teste dei principi albanesi furono date ai bambini di Adrianopoli affinchè vi giocassero.
Analizzando questo particolare periodo della vita di Giorgio Castriota, mi sovviene alla mente un parallelismo con un altro personaggio leggendario, la cui storia è riportata in uno dei libri dell’esodo: Mosè. Figlio di Amram e Iochebed, Mosè, la cui etimologia del nome indica il significato di “estratto dalle acque”, scampò alla persecuzione del faraone grazie alla sorella di quest’ultimo, che lo salvò e lo adottò. Mosè fu quindi educato alla corte egizia, seguendone usi e costumi, e qui il primo punto in comune con Scanderbeg: entrambi allontanati dalla famiglia e dalle tradizioni originarie, entrambi educati ai mores di quello che poi diventerà il nemico. Anche Mosè si distinse alla corte del Faraone per le illustri imprese e il vivace intelletto: il nome di Mosè venne inciso negli obelischi egizi, grande onorificenza all’epoca. Eppure, il richiamo delle origini in Mosè si fece sentire in tutto il suo impeto quando egli fu costretto a scappare dall’Egitto a seguito dell’omicidio compiuto ai danni di un sorvegliante in difesa di uno schiavo ebreo. Mosè non lo premeditò, fu semplicemente guidato dagli eventi.
E il medesimo caso succederà anche con Scanderbeg. Egli infatti, non affrontò subito la tormentata prospettiva albanese, frenato dal prestigio posseduto alla corte del sultano e dal ricordo dei due suoi fratelli, i quali furono avvelenati per non aver seguito le disposizioni dell’imperatore ottomano. La ribellione però maturò in lui a seguito di un evento scatenante e le relative conseguenze: alla morte del padre Giovanni nel 1442, i beni della famiglia Castriota furono affidati ad Hassan Bey Versdesa, un rinnegato albanese, e successivamente la madre Woissava Tripalda fu mandata in esilio insieme alla figlia Mamiza. La madre poco dopo per il dispiacere morì, senza aver più potuto rivedere il figlio Giorgio. A Scanderbeg fu quindi riservato, dal sultano che lo aveva adottato come un figlio, lo stesso ingiusto trattamento riservato agli altri principi albanesi. Vennero meno i valori cardini dell’ideologia e dell’ordinamento sociale dei rapporti privati, ovvero i principi di fides et foedus: la fiducia in colui che aveva servito, rispettato e considerato come un secondo padre, Murad II, e il patto riguardante i beni dei Castriota stipulato anni prima da quest’ultimo con il suo vero padre Giovanni. Fu un grave errore del sultano.
Nel 1443 il re della Serbia Giorgio Brancovich chiese aiuto al Papa Eugenio IV per riconquistare il suo regno occupato dai turchi musulmani. Il Papa favorì al Re l’aiuto dell’Ungheria, e a seguito di ciò Scanderbeg fu mandato a contrastare il passo del condottiero ungherese cristiano Giovanni Hunyadi (“il cavaliere bianco”). E qui Scanderbeg, conscio dall’esperienza sul campo delle potenzialità ma soprattutto dei limiti militari delle forze della mezzaluna, attuò dall’interno quella che sarà la sua più grande strategia militare: coadiuvato dal nipote Hamza, divise l’esercito turco. Lo scontro decisivo ebbe luogo nel Cossovo, a Nis, dove il condottiero Hunyadi, forse posteriormente a un tacito accordo stretto con Scanderbeg, pur disponendo di un numero inferiore di uomini, attaccò il diviso esercito turco. Successivamente Scanderbeg marciò verso Croja (la città delle fontane) che conquistò grazie allo stratagemma di cui sopra. In quella stessa notte il vessillo con la mezzaluna fu sostituito con l’aquila a due teste nera in campo rosso, vessillo dei Castriota: “Rubea vexilla nigris et bicipitibus distincta aqulis gerebat Scanderbeg” e gli albanesi compresero che era arrivato finalmente il momento della libertà e dell’indipendenza: “Libertas in omnium erat ore. Libertatis dulce nomen undique resonabat”. L’eroe albanese riabbracciò, dunque, la religione cristiana, abiurando quella musulmana impostagli e dando inizio a quella che sarà la guerra di tutta la sua vita: la guerra di liberazione contro i turchi.

Il rapporto di Scanderbeg con i principi albanesi è facilmente ricostruibile analizzando l’arco di tempo che va dalla costituzione della Lega dei Principi (1444) all’ultimo tradimento da parte del fido nipote Hamza (1457).
Il 1° marzo 1444 si formò, anche per intercessione di Paolo Angelo, futuro arcivescovo di Durazzo, la “Lega dei Principi Albanesi”. Riuniti nella chiesa di San Nicolò, parteciparono i più importanti Principi d’Albania. Scanderbeg fu eletto all’unanimità capo della Lega e comandante dell’unico esercito di tutta la coalizione, composto da circa diciottomila uomini. Ai principi convenuti, i quali oltre ai soldati messi a disposizione s’impegnavano a versare ogni anno alla “cassa della guerra” duecentomila ducati d’oro, prima di iniziare la guerra ai musulmani Scanderbeg rivolse, come riferisce Barlezio nella sua “Historia … de Scanderbegi” e come riportato integralmente dal giornalista Gino Pallotta nella sua opera “Scanderbeg, eroe dell’indipendenza albanese”, un vibrato discorso: “Capitani e soldati valorosi, pronipoti degni di una razza antica e nobile, eroi fedeli ed indomiti della vostra terra e del vostro re. Io ho sempre nutrito questo grande amore per la Patria e questo desiderio vivo della libertà. Quando voi mi avete esortato quando ero al servizio del Sultano […] a voi forse cadde in mente che io avessi dimenticato la mia terra e l’onore e la libertà […] Se per tanti anni non vi svelai il sentimento dell’anima mia non fu perchè io non avessi fiducia […] perchè i mezzi dovevano essere trovati […] La libertà avreste potuto riacquistare con il vostro eroismo e con altro liberatore perché all’Albania non mancano eroi[…]La libertà  non io ve l’ho portata ma io l’ho trovata qui in mezzo a voi[…]Come voi udiste il mio nome siete accorsi tutti[…] come se si fossero levati dalle tombe gli avi, i fratelli e i vostri figli, come se dal cielo fosse disceso tra voi lo stesso Iddio[…]Levate dunque in alto la bandiera, e dimostratevi prodi come sempre. Il sommo Dio che ci ha assistito fino ad oggi, ci assisterà nell’avvenire guidandoci alla vittoria. Avanti!”. Tutti cattolici, con una fede cieca in Dio e nel loro comandante Scanderbeg, gli orgogliosi principi albanesi erano votati alla morte, “cader coi giusti è pur di lode degno” avrebbe detto Dante: avevano tutti giurato di non sopravvivere al loro capo, se questi fosse morto in battaglia. Scanderbeg ne conosceva i nomi a memoria: una casta di guerrieri scelti alla quale tutti aspiravano di appartenere.
Dei diciottomila soldati a disposizione, ne convocò soli quindicimila e con accorti stratagemmi attirò i turchi nel piccolo campo in cui aveva deciso di dargli battaglia. I turchi, nonostante il proprio esercito di quarantamila uomini guidati da Ali Pascià, grande condottiero alla corte ottomana, riportarono una dura sconfitta.
Il 14 maggio 1449 Murad II inizia l’assedio di Sfetigrad. Mentre si attendeva il colpo di grazia del sultano contro Croja (Kruja) nel 1450, quasi tutti gli alleati e i principi della Lega abbandonarono Scanderbeg. Arianiti Comneno era risentito perché il Castriota si rifiutava di chiedere sua figlia in sposa, come aveva promesso, mentre gli altri principi furono istigati alla ribellione da Venezia, che aveva stipulato la pace con il sultano e che avrebbe avuto tutto da guadagnare da una guerra tra Scanderbeg e i turchi, commerciando con entrambi nelle materie necessarie alla guerra. Soltanto i Dukagjini mandarono qualche soldato. A seguito dell’incresciosa situazione creatasi all’interno della Lega, trovatosi in condizioni di estrema necessità, nel 1451 Scanderbeg siglò il trattato con Alfonso d’Aragona. Il 7 aprile del medesimo anno Scanderbeg sposò la giovane Andronica Arianiti e un analogo trattato fu firmato tra il re di Napoli e la famiglia degli Arianiti, ma gli altri Principi non vollero saperne, poiché, a loro parere, il loro capo si sarebbe impegnato a fare atto di vassallaggio verso il re di Napoli, pagandogli un “tributo” in cambio di aiuto armato e soprattutto economico (grano e denaro). Sarà il Papa Niccolò V (come riferisce Alessandro Serra che ha attinto anche dall’Archivio segreto del Vaticano) a mediare la riappacificazione tra i principi: il 18 luglio 1452 concesse all’arcivescovo di Drivasto un salvacondotto per recarsi in Albania “pro nonnullis ardui nostris et romane Ecclesie negotiis” e due giorni dopo ordinò al medesimo arcivescovo di adoperarsi per placare i “gravia odia” sorti fra i capi albanesi: “quae res magna molestia nos afficit”. Il 25 ottobre del 1452, in Durazzo, alla presenza anche del rappresentante veneziano, Paolo e Niccolò Dukagino si riappacificarono con il Castriota.
Scanderbeg, il 15 luglio 1455, iniziò l’assedio di Berat. Bombardata dai napoletani, la fortezza ebbe un primo cedimento, e sarebbe caduta se gli albanesi al comando del giovane inesperto Carlo Musacchio Thopia, cognato di Scanderbeg, non fossero caduti nell’armistizio chiesto dal comandante turco per guadagnare tempo. L’esercito si disunì e mentre i soldati si ubriacavano e disertavano, alcuni principi albanesi come Moisè Dibra (Moisè Golemi di Dibra), in combutta con Venezia, si misero in contatto con il Sultano Maometto II, successore di Murad II, che aveva promesso allo stesso Dibra il trono d’Albania, suggerendo i modi e le opportunità più convenienti per attaccare.
Dopo il tradimento, ci fu la battaglia e la prima unica sconfitta degli albanesi di Scanderbeg da parte dei turchi musulmani. Il 26 luglio 1455 l’esercito turco, al comando di Isa beg, composto da oltre venticinquemila uomini, distrusse il disfatto esercito albanese. Nessun prigioniero fu risparmiato. Coloro che si erano arresi furono finiti a colpi di martello, e tutto il resto dell’esercito si mise in fuga.
Nella primavera del 1456 Maometto II riprese la guerra contro Scanderbeg allestendo un’armata affidata al traditore Moisé Dibra. Lo scontro fra i due eserciti, com’era ormai consuetudine, fu preceduto da un mortale duello tra due campioni: il turco Amhet sfidò a singolar tenzone un campione albanese, Zaccaria Groppa il quale, dopo un cruento scontro, ebbe la meglio strozzando l’avversario. Allora Moisé Dibra, per rianimare i suoi uomini, sfidò a sua volta Scanderbeg, ma quando il condottiero albanese si fece avanti, lo sfidante non osò confrontarsi suo antico capo e si nascose trai turchi. Il giorno dopo, il 20 maggio 1456, i due eserciti si affrontarono nei pressi di Oranik e i turchi furono sconfitti, lasciando sul campo un gran numero di morti. Moisé Dibra fu risparmiato e, dopo qualche tempo, fuggì umiliato da Costantinopoli, andando a chiedere perdono a colui che aveva tradito. Si gettò in ginocchio piangendo dinanzi a Scanderbeg, che lo fece rialzare e gli baciò la fronte, perdonandolo come lo aveva istruito la religione cristiana. Mentre Scanderbeg cercava di trovare il modo di liberare le fortezze di Berat e di Sfetigrad, un altro tradimento consegnò nelle mani dei turchi l’altra fortezza, quella di Modriza, che lo stesso Scanderbeg aveva fatto costruire come base di partenza per le sue spedizioni offensive nel territorio turco. Il traditore, questa volta, fu il nipote Giorgio Stresio Balsha, figlio di Angela sorella di Scanderbeg. L’ira di Scanderbeg fu grande. Egli, personalmente, ordinò e diede la caccia al nipote Giorgio che, una volta ghermito, fu torturato ed inviato prigioniero ad Alfonso d’Aragona.
Nella storia del Castriota ci fu un terzo traditore, nella persona di Hamza, altro nipote dell’eroe nazionale albanese. Hamza aveva sperato che lo zio Giorgio, ormai in avanzata età, non avesse avuto più la possibilità di avere dei figli e gli lasciasse quindi, alla morte, tutti i suoi averi. Nel 1456 invece a Scanderbeg nacque un figlio, che chiamò con il nome del padre, Giovanni. Hamza, per il quale si chiusero tutte le porte alla sperata eredità, in contrasto con lo zio fuggì con tutta la sua famiglia, rifugiandosi a Adrianopoli. Si dice che Scanderbeg, reso a conoscenza della sua fuga, avesse pianto e commentato: “più la disavventura nei suoi più cari che la perfidia del nipote.” E fu così che Hamza, “il traditore della patria e della famiglia” al quale lo stesso Maometto II aveva promesso il trono d’Albania se fosse stato capace di sconfiggere Scanderbeg, si mise alla testa di cinquantamila guerrieri musulmani e mosse verso e contro la terra d’Albania.
La nuova invasione turca ebbe luogo l’anno successivo. Il 7 settembre del 1457 fu una giornata molto calda e le soldatesche turche, intorno a mezzogiorno, si apprestavano a mangiare, mentre per tutto il campo, la sorveglianza svaniva. A mezzogiorno, mentre il pascià cercava di incoronare in nome del sultano il traditore Hamza a re d’Albania, Scanderbeg diede il segnale dell’attacco, e gli albanesi entrarono nel campo senza incontrare alcuna resistenza. Fu un vero massacro. Zaccaria Groppa fece prigioniero Hamza, che per ordine di Scanderbeg non fu ucciso, ma venne portato a Napoli. Dopo qualche tempo, ottenne il perdono da Scanderbeg e combatté al suo fianco. Quando volle riportare a casa la sua famiglia, trasferita a Costantinopoli, Hamsa scoprì che tutti i membri furono fatti avvelenare da Maometto II, e poco dopo a lui stesso toccò la medesima sorte.

Il rapporto di Venezia con l’Albania, in particolare nella persona di Giorgio Castriota, fu sempre di natura ambigua, un ambiguità che spesso penalizzò l’eroe albanese favorendo il nemico turco. Fin da quando Giorgio si trovava ancora alla corte di Adrianopoli (1430-1434) la Serenissima ricorse al padre Giovanni per intercedere col figlio affinchè non portasse scorrerie nella terra considerata “amica”, ma per capir meglio fino a che punto si spinse l’ambiguità di Venezia, andranno esaminati tre avvenimenti importanti: la battaglia di varna (1444), la questione di Dagno (1445-1447) e l’assedio di Croja (1450).
Il 12 luglio 1444, timoroso dell’appoggio del Papa a Scanderbeg e alla Serbia, Murad II firmò la pace di Szegedin. Successivamente, il sultano abdicò a favore del figlio Mehmed (Maometto II) per ritirarsi in Magnesia a passare gli ultimi anni della sua vita. La pace decennale però durò dolo sei settimane. Il cardinale Giuliano Cesarini convinse il re Ladislao III di Polonia e Ungheria a rompere il trattato e ad attaccare, approfittando dell’assenza del sultano. Ebbe così luogo la battaglia presso Varna del 10 novembre 1444. Scanderbeg non poté portare soccorso ai suoi due alleati, Ladislao e Hunyadi, in quanto Giorgio Brankovich non gli permise di attraversare la Serbia in virtù del trattato di pace stipulato con il sultano: venne presto a sapere della disfatta di Varna, di come fosse stato ucciso il Re Ladislao e di come la sua testa, infissa su una lancia, fu mostrata a tutto il campo dei cristiani. Anche il Legato del Papa, il cardinale Giuliano Cesarini, trovò la morte quando, durante la ritirata, fu assalito dagli stessi ungheresi, banditi o disertori i quali, dopo averlo derubato ed ucciso, lasciarono i resti del suo corpo in pasto agli uccelli da preda. Hunyadi fu fatto prigioniero e rilasciato dopo il pagamento di un forte riscatto. Ai veneziani ricadde parte della responsabilità della sconfitta di Varna perché, inermi, erano stati a guardare il passaggio dello stretto, tra il lago della stessa città di Varna e il mar Nero, delle armate turche, che avevano pagato l’obolo di un ducato d’oro per ogni soldato traghettato.
A Musacchiana il 26 gennaio del 1445 Mamiza Castriota sposa Musachio Thopia, e purtroppo le feste nuziali si conclusero tragicamente. All’origine della tragedia vi è una storia d’amore, al cui centro abbiamo Zadrina Dusman, contesa tra Lek Zaccaria e Lek Ducagin. Probabilmente Zadrina era legata al primo quando il secondo la chiese in sposa. Lek Dukagin era uno dei più importanti personaggi albanesi del periodo di Scanderbeg, un signore quasi di pari grado, al quale si deve anche l’opera meritoria di legislatore da lui compiuta codificando il Kanun (diritto della gente di montagna) il corpo juris della tribù dei Dukagin e, in seguito, il corpus juris di tutta la Mirdizia. Alle nozze di Mamiza i due Lek vennero a singolar tenzone e con loro tutti gli invitati alla cerimonia nuziale. Dopo qualche tempo, nel novembre del 1447 fu trovato morto Lek Zaccaria, signore di Dagno, il quale non lasciò eredi: la colpa dell’omicidio fu imputata al suo antico rivale. Scanderbeg rivendicò il dominio di Dagno ma la madre dell’ucciso, la principessa Bosa, si accordò con i veneziani e cedette il dominio della città alla Serenissima, provocando l’ira e lo sdegno di Scanderbeg. Iniziò, così, la guerra tra il Castriota e la Serenissima. Mentre Scanderbeg combattè nei pressi di Danja, il re Alfonso d’Aragona aiutò il duca di Milano, anch’egli in guerra con Venezia. E’ in questo periodo che si gettarono le basi di quella che in seguito diventò una solida alleanza tra Scanderbeg e Alfonso d’Aragona. All’inizio la guerra si mise male per i veneziani e tutti i loro possedimenti in Albania furono ben presto in pericolo, ma la potenza della Serenissima fece mettere in moto anche i turchi, e Scanderbeg consapevole di ciò, da buon politico raccomandò ai suoi soldati “clemenza” verso i veneziani sconfitti, evitando di uccidere quelli in ritirata facendoli soltanto prigionieri. Infine, fu trovato nel 1448 un accordo e firmata la pace ad Alessio. A Venezia rimase la città di Dagno ma in compenso fu costretta a cedere tutto il territorio detto della “Bocca del Serpente”, impegnandosi inoltre a pagare a Scanderbeg millequattrocento ducati di pensione ogni anno. Inoltre il nome del condottiero albanese sarebbe stato scritto nel Libro d’Oro della nobiltà veneziana.
Per quanto riguarda l’assedio di Croja del 1450, il comportamento dei mercanti veneziani fu vergognoso e infido. Non solo rifornirono i turchi di armi, ma quando questi, stanchi di vedersi saccheggiati dagli albanesi quanto avevano comprato durante le imboscate, pretesero che i Veneziani portassero tutto al loro accampamento, i mercanti della Serenissima non esitarono a trasferire le merci ai turchi ai piedi della rocca di Kruja. Pensavano erroneamente che Scanderbeg non avrebbe mai permesso che un cittadino veneziano fosse attaccato, per non trovarsi in guerra anche con la Serenissima, ma il Castriota non ci pensò due volte e gli albanesi, inferociti dal comportamento dei Veneziani, non fecero distinzioni.  La guerra fu sventata solo grazie all’opera diplomatica dell’arcivescovo di Durazzo, un amico del Castriota, che riuscì, tra l’altro, ad impedire ulteriori rifornimenti al campo turco.
Saltiamo un decennio. Maometto II, con le sue conquiste, e specialmente con l’occupazione della Bosnia del maggio 1463, metteva gravemente in pericolo tutto l’occidente cristiano. Venezia iniziava a tremare e dopo la morte del Doge Prospero Malipiero (5 maggio 1462) al suo successore, Cristoforo Moro, soprattutto da parte di Vittorio Cappello, si chiedeva l’intervento contro i turchi. Da parte sua il Papa Pio II cercò di ottenere senza successo una conversione dello stesso Maometto, e nient’altro gli restò da fare se non riorganizzare la Crociata che avrebbe dovuto eliminare per sempre il pericolo turco, Crociata che non si attuò.
Venezia prese le distanze da Maometto II e siglò un’intesa con Roma, Ungheria, con Mattia Corvino, e Albania con Giorgio Castriota. La pace con Venezia fu contrastata non solo dai principi albanesi ma anche da personaggi vicini al Doge, tanto è vero che nel 1464 Antonio Venier, consigliere e luogotenente del Doge, diede all’ambasciatore di Francesco Sforza a Venezia,  Gerardo De Collis, la seguente informazione su Scanderbeg: “Nui non si fidamo di lui per niente, perché è albanese ed è traditore e tristo; lui ha facto un pensiero de tenere uno piede in due scarpe, s’el vedrà che li Christiani siano possenti tenerà da nui altrimenti sarà d’accordo cum lo Turco”. Un giudizio affrettato che sarà successivamente smentito grazie alla coerenza di Scanderbeg. Il trattato con Venezia prevedeva che Scanderbeg avrebbe ripreso la guerra a condizione di ottenere soldati ed aiuti economici, “pecunias stipendariarum ipsorum mittemus”, che con molte galee disponibili “ad omnem requisitionem suam” proteggessero le coste albanesi e, ancora, il trattato che prevedeva Giovanni, suo figlio, sarebbe stato ammesso fra i gentiluomini veneziani e lui, Giorgio, avrebbe goduto di una forte pensione, aumentata di altri 500 ducati, da parte del Senato veneziano, in modo che lo stesso “cum uxore, liberis et familia honorifice vivere poterit”. Dopo il trattato con Venezia Scanderbeg ruppe la pace con Maometto II. Il 14 agosto 1464, con la morte di Papa Pio II, la Crociata voluta contro Maometto II, che il Papa stesso autorizzò con la Bolla “Ezechielis prophetae magni sententiae est” del 22 ottobre 1463, si dissolse e la guerra contro i turchi, condotta da pochi valorosi come Scanderbeg, continuò ma con caratteri tali da non poter essere confusa con le guerre di religione. 

Come ultimo punto di questo intervento, esamineremo il rapporto di Scanderbeg con Alfonso V d’Aragona, detto “il Magnanimo”, rapporto che perdurò dagli inizi della guerra di Scanderbeg ai turchi fino alla morte del sovrano di Napoli.
La questione albanese, con le prime schiaccianti vittorie contro i turchi nonostante la grande differenza numerica delle armate (in rapporto di quasi 1 a 2 a favore della mezzaluna), suscitò presto l’attenzione dell’Europa, in particolare l’assedio di Croja e la vittoria degli albanesi di Scanderbeg destarono il favorevole interesse del Re di Napoli.
Nel 1451, a seguito del totale abbandono da parte dei principi albanesi, Scanderbeg, puntò su Napoli con decisione. Il trattato (“Capituli inhibiti  et firmati tra la Serenissima Maestà de lo Serenissimo Don Alfonso Re d’Aragona, de Sicilia citra et ultra Farum da una parte e lo venerabile patre in X domno Stephano Episcoco de Croya e lo religioso Maestro Nicola de Berguzzi del ordine de Santo Domeneco oratore et ambassiatore de lo spectabile et magnifico Zorgio Castrioti signore de la ditta citade de Croya e dei suoi parenti baroni in Albania de la parte altera […]”, atti reperiti all’Archivio di Barcellona dallo storico arbereshe Italo Elmo)  tra Scanderbeg e Alfonso d’Aragona, riportato da Cerone, fu negoziato a Gaeta il 26 marzo 1451 da Etienne (Stefano), vescovo di Croya, e dal domenicano Nicola de Berguzzi, in rappresentanza di Scanderbeg e da Arnaldo Fonolleda, protonotario del re.
Il trattato risultò molto vantaggioso per il re di Napoli, il quale riuscì ad estendere la sua influenza su gran parte dell’Albania, utilizzando questa terra come baluardo in difesa del suo Regno. Da parte sua, il re Alfonso s’impegnava a mandare le sue truppe in Albania ed a firmare singoli trattati con tutti i Principi che volevano accordarsi con lui. Scanderbeg avrebbe ceduto sulla carta non solo la terra e la città di Croya ma anche “tucto quello che el dicto S. Giorgio ha et haverrà serrà a comando et ordinacione de la predicta Maiestà e dei soi officiali”, e si sarebbe, come già anticipato in precedenza a proposito del rapporto con i principi albanesi, impegnato a fare atto di vassallaggio verso il re di Napoli ed a pagargli un “tributo”, ossia un “Kharatsch”, “daranno e pagheranno ciascun anno alla prefata Maiestà lo tributo che per lo presente sono tenuti a dare al dicto Turco”, in più tutti i vassalli del Castriota e dei suoi parenti “compreranno lo sale dei fondaci li quali ordinerà la prefata Maiestà a quel prezzo che lo comprano al presente dai fondaci del Turco”: in cambio di codesto vassallaggio Scanderbeg si garantiva non solo l’aiuto armato ma, soprattutto quello economico, e, ancora, il re Alfonso si obbligava “avuto lo dicto paese, mantenire et servare tutti li privilegi de la cità de Croja e de tutto Albano, come hanno fatto tutti li Re d’Albania et manteniri tutti li Signori che serranno subiecti a la predicta Maiestà”.  Il 7 aprile del 1451 Scanderbeg sposò Andronica, detta pure Donica o Marina Arianiti, quando questa aveva soli ventitrè anni e un analogo trattato, “in castello Turris octave” (Torre del Greco) fu firmato tra il re di Napoli e Filippo Pantella, inviato dalla famiglia degli Arianiti, il 7 giugno 1451. Nel maggio del 1451 re Alfonso inviò in Albania il suo luogotenente Bernardo Vaquer con un reparto di cento soldati, viveri ed armi con l’espresso ordine di riedificare le mura di Croja.
Il 29 maggio del 1453, Maometto II il Conquistatore fu attore, con le sue armate islamiche, di uno dei più importanti avvenimenti storici dell’epoca: la presa di Costantinopoli, metropoli religiosa dell’oriente cristiano. Nel gennaio del 1454 il re di Napoli inviò in Albania un forte contingente di soldati, fucili, cannoni, carri con vettovaglie e denari per le spese di guerra, e lo stesso Scanderbeg, in questo periodo, fu nominato “capitano generale del re d’Aragona”, nomina che insospettì immediatamente Venezia, la quale aveva interesse a che il basso bacino adriatico non fosse egemonizzato dal re di Napoli.
Alla morte, Alfonso V d’Aragona aveva lasciato a Ferrante, suo figlio naturale, nato dall’unione con la nobildonna Gilardona Carlino di Valenza, il Regno di Napoli, ed a suo fratello, Giovanni II d’Aragona, re di Navarra, la Sicilia. Ma l’ascesa al trono di Ferrante fu ben presto contestata non solo dallo zio, il re di Navarra, ma perfino dal Papa, Callisto III, innescando un clima d’incertezza circa la legittimità della successione di Ferrante. Dopo l’incoronazione nel 1459, ben presto il re Ferrante dovette mettere mano alla spada per difendere il suo Regno non solo dai suoi Principi, (il Principe di Taranto, Giovanni Antonio Orsini; il Conte di Catanzaro e marchese di Crotone, Antonio Centelles Centiglia, il Principe di Rossano e duca di Sessa, Marino Marzano) che dopo la morte del padre, minacciavano il potere centrale, ma anche dal duca di Lorena Giovanni d’Angiò di Renato, incoraggiato dai predetti Principi e soprattutto da uno dei migliori condottieri italiani del tempo, il mercenario capitano Giacomo Piccinino. Il d’Angiò ebbe via libera in Puglia e in diverse altre zone per cui a Ferrante, con l’appoggio del Papa e del duca Francesco Sforza di Milano, non restò che scendere in guerra, anche se le sue possibilità di vittoria erano molto scarse. Ben presto le sorti della guerra furono contrarie al re Ferrante, il quale dopo aver perso tante battaglie (da ricordarsi quella di Sarno del 7 luglio 1460) era stato assediato a Barletta. Un aiuto insperato arrivò. L’amico del padre, l’Albanese, non potè assistere inerme alla sconfitta del figlio del suo più antico e fedele alleato (dopo tanti tradimenti, la fede e la lealtà “Bes” rimanevano per Scanderbeg i valori più sacri) e con il suo corpo di seicento cavalieri scelti ed alcune migliaia di soldati passò l’Adriatico. Dopo una breve visita a Ragusa, altra sua alleata, fece vela per Barletta, dove con cinque navi sbarcò una prima volta il 1 ottobre del 1460, con due corpi a cavallo comandati da Goico (Giorgio) Stresio nipote di Scanderbeg, e una seconda volta, alla fine di agosto del 1461, con lui stesso a capo di un esercito di circa duemila uomini. Al suo arrivo, il Piccinino spostò, arretrandola, la linea del suo schieramento. Scanderbeg fece di Barletta la base delle sue operazioni. Si rivolse subito contro il Principe Orsini, il quale, dopo aver perso tante battaglie, fu costretto a domandar tregua. Seguì la volta di Trani, che conquistò grazie ad uno stratagemma militare, dopo averne fatto prigioniero il Principe, Antonio Iosciano. Scanderbeg prese parte, il 18 agosto, alla vittoriosa battaglia di Orsara contro il duca d’Angiò, decisiva per le sorti di Re Ferrante. Molti storici sono concordi nel ritenere che l’intervento di Scanderbeg sia stato determinante per il successo finale del re di Napoli il quale, grato per i favori ricevuti, concesse in Signoria a Scanderbeg “Albaniiae Dominus et Locumtenens noster generalis tamquam pater carissimus” alcuni paesi e castelli in Puglia, ove il 14 aprile 1464 il Castriota prestò giuramento al Sovrano in qualità di feudatario del regno: “Illustris Dominus Georgius Castriota dictus Scanderbech Albaniae Dominus ac factus novus Dominus terrarum Montis Sancti Angeli et Sancti Joannis Rotundi personaliter prestitit in manibus Domini Regis in forma solemni et consueta ligium homagium […] in Castello Novo civitatis Neapolis die XIIII aprilis MCCCLXIIII”  (Monti, pag. 311) il feudo di Monte Sant’Angelo e di San Giovanni Rotondo diventando, così, un “signore italiano”, e più tardi la predetta donazione, il giorno 2 agosto 1485, fu sostituita “de tali excambio novoque dominio” con quella del feudo di Soleto e quello di San Pietro in Galatina, dove, dopo la morte di Giorgio, troverà rifugio il figlio Giovanni Castriota, con il titolo di Duca, insieme alla sua famiglia e alcuni albanesi al suo seguito, dando origine a quello che sarà uno dei casi più straordinari per quanto riguarda le minoranze in Italia.

Francesca Librandi

 

 

14 risposte a “GIORGIO CASTRIOTA “ISKANDER BEG”: RIVISITAZIONE STORICA”

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