Intervento presentato al “Convegno di Studi su Scanderbeg” organizzato dall’ “Associazione UNESCO” di Cosenza del 25 maggio 2018 presso il “Museo dei Brettii e degli Enotri” (CS).
I numerosi convegni a tema Giorgio Castriota Scanderbeg sono ormai diventati un’arma a doppio taglio, poiché è facile destare, con dissertazioni altisonanti, l’interesse di un pubblico eterogeneo e il più delle volte non esperto, alla maniera di quanto è accaduto recentemente al convegno organizzato dall’Unesco di Cosenza, come è facile inoltre trovare punti di vista sempre diversi da esaminare, ma altrettanto lo è cadere in errore, essendoci sull’argomento innumerevoli studi e ricerche ma altrettante innumerevoli dispute, a cura dei più grandi studiosi della materia e di chi si millanta esserlo.
È opportuno quindi chiarire, attraverso studi e ricerche ancora più approfonditi e sinceri, in modo preciso e inconfutabile, le varie vicende storiche, ancora oggi troppo confuse e soggette ad errate interpretazioni e ingiuste manipolazioni da parte di chi non accetta ipotesi alternative alla verità finora raccontata e mai del tutto testimoniata. Una vera e onesta realtà storica infatti, intorno alla figura del condottiero albanese è ancora, quindi, tutta da riscoprire, interpretare e divulgare.
Noi arbereshe siamo portati a considerare Giorgio Castriota un po’ il “nostro” eroe, una figura maggiormente, se non interamente, del “nostro” passato e della “nostra” storia, quando in realtà non è del tutto così, o almeno non esclusivamente. Per noi il principe Giorgio Castriota è l’eroe che ha trasformato la sua vita in una missione di liberazione dell’Albania dal dominio della mezzaluna, ma l’eco che la sua fama ha lasciato nel mondo è molto di più. Scanderbeg agli occhi dell’umanità appare come un simbolo di libertà, di coraggio, nonché, a mio parere abusivamente, di difensore della cristianità, poiché le sue battaglie non furono in considerevole percentuale influenzate dalla religione, bensì dal desiderio di indipendenza della propria terra. Motivi più di natura politica, dunque, che religiosa: Giorgio Castriota combatté i turchi non perché erano musulmani, combatté i turchi in quanto turchi, usurpatori e oppressori. La religione quindi è una conseguenza, e non una causa, come spesso gli illustri cattedratici cultori della materia tentano di sostenere.
C’è chi perfino ha irremovibilmente scartato la teoria secondo la quale Giorgio Castriota avrebbe iniziato la propria ribellione al sultano Murad II a causa della morte del di lui padre, Giovanni, e del successivo tradimento dell’antico foedus di restituzione dei beni di famiglia all’eroe, eliminando così ogni possibilità di approfondimento di un aspetto più umano e più veritiero del condottiero, innalzandolo esclusivamente al ruolo di mito.
Che sia stato nei secoli innalzato al ruolo di mito è una realtà certamente comprovata.
A riprova dell’importanza della sua leggenda, le numerose e variegate testimonianze di omaggi e tributi sparsi per il mondo: il primo busto di Scanderbeg fu creato dalla mano di Murat Toptani, poeta, artista e attivista albanese, verso i primi del ‘900; nella città di Kruja è possibile ammirare un monumento in onore del condottiero risalente agli anni ’50, mentre la città di Pristina dovette attendere un decennio il monumento dello scultore Janaq Paco, nato nel 1914 e ancora vivente. Altri monumenti a Giorgio Castriota sono presenti in altre città d’Albania, in Macedonia, e in Grecia, per quanto riguarda i luoghi di diretta influenza albanese. Sposandoci in una realtà “europea”, di notevole interesse è il monumento equestre a Giorgio Castriota Scanderbeg, ad opera dello scultore, Romano Romanelli, sito a Roma in quella che originariamente era chiamata Piazza Raudusculana, ma che nel 1940 cambiò nome diventando Piazza Albania, per commemorare gli eventi dell’anno precedente, ovvero l‘annessione dell’Albania al Regno d’Italia.
Ricordiamo poi Piazza Skanderbeg a Parigi, sita nella 19 circoscrizione, inaugurata in Francia in occasione del cinquecentenario della morte del condottiero nel 1968, alla presenza di varie comunità albanesi d’Italia, di Grecia, di Albania, Kosovo, Montenegro e Macedonia, che reca però un errore nella data di morte dell’eroe, avvenuta un anno prima di quanto riportato sulla targa. Poi a Bruxelles il Monumento a Giorgio Castriota Scanderbeg, inaugurato sempre nel 1968, e, attualmente il più lontano, il Monumento Equestre a Giorgio Castriota Scanderbeg a Rochester Hills, in Michigan, sito presso St. Paul Albanian Parish ed eretto nel 2005 quale primo monumento a lui dedicato negli Stati Uniti d’America. Potremmo continuare a livello internazionale con Londra, Vienna, Budapest e Ginevra, ma tornando un po’ più vicini a casa, Cosenza vede deposto il proprio busto di Giorgio Castriota solo nel 1978, nel Centro Storico, dopo anni di giacenza forzata in luoghi non adatti alla commemorazione di un “mito”, mentre altri busti sono reperibili in Vaccarizzo Albanese, San Cosmo Albanese e Civita.
Giorgio Castriota è spesso raffigurato con indosso l’elmo bicorno, omaggio forse alla capra, animale che gli consentì di mettere in fuga l’esercito turco in una delle sue astute strategie militari, oppure richiamo simbolico ad Athena Parthenos, dea della giustizia e della guerra, protettrice dei giusti, che mitologia vuole recante sul proprio scudo la pelle della capra Amaltea, la quale allattò Zeus.
Curioso è il caso di Santa Sofia d’Epiro, che ha intitolato una piazza a Giorgio Castriota senza il suo appellativo, Scanderbeg, e in questo la comunità mi trova particolarmente solidale. Perché chiamare colui che ha combattuto tutta la vita contro il nemico turco con un nome che lo stesso nemico gli aveva assegnato? Mi sembra irrispettoso e indegno della memoria delle grandi gesta compiute contro chi ha rinnegato, senza badare al curioso paradosso di chiamare il principe Giorgio “principe Alessandro” (letterale significato dell’appellativo “Iskender beg”). Solitamente amo paragonare la figura del Castriota a quella di un altro esimio personaggio protagonista di uno dei miti per eccellenza: Mosè. Immaginarsi se quest’ultimo fosse stato riportato nei Libri dell’Esodo con l’appellativo donatogli dagli egiziani nel suo periodo di permanenza e adozione.
Mi è stato chiesto di approfondire il collegamento tra la storia del condottiero albanese e la storia degli arbereshe, e per fare ciò bisogna inquadrare innanzitutto un rapporto che in un certo senso sintetizza l’aspetto più umano di Giorgio, fondato su quella bes (lealtà), su quei fides et fedus (fiducia e patto) che, dopo i numerosi tradimenti endogeni al suo nucleo familiare ed esogeni alla sua terra, tanto spesso gli vennero a mancare nella vita: il rapporto di Giorgio Castriota con Alfonso V d’Aragona, detto “il Magnanimo”, rapporto che perdurò dagli inizi della guerra di Giorgio Castriota ai turchi fino alla morte del sovrano di Napoli.
Il primo avvicinamento tra l’eroe albanese e il Regno di Napoli si verifica con la questione di Dagno. Nel 1445 la sorella di Giorgio, Mamiza Castriota, va in sposa a Musachio Thopia, ma tale evento sarà ricordato maggiormente per la disputa dei due Lek, Zaccaria signore di Dagno, e Dukagin, legislatore insigne, che sfidandosi a duello rovinarono i festeggiamenti. Circa due anni più tardi il primo venne trovato ucciso, e, non lasciando egli alla città di Dagno alcun erede. Poiché lo Zaccaria non aveva dunque prole, Giorgio rivendicò il dominio di Dagno, ma la principessa Bosa, madre dello Zaccaria, cedette la città ai veneziani, dando inizio allo scontro tra la Serenissima e il Castriota. Nel frattempo il Re Alfonso d’Aragona prestava aiuto al Duca di Milano, anch’egli in guerra con Venezia. Fu combattendo contro un nemico comune che si gettarono le basi di quella che in seguito diventò una solida alleanza tra il principe albanese e il Re di Napoli.
L’interesse del Re di Napoli verso la questione albanese fu poi risvegliato con le prime vittorie contro i turchi nonostante la grande differenza numerica delle armate (in rapporto di quasi 1 a 2 a favore della mezzaluna), in particolare con l’assedio di Croja nel 1950 e la vittoria degli albanesi.
L’anno successivo, a seguito del totale abbandono da parte dei principi albanesi (Arianiti Comneno era risentito perché il Giorgio non aveva ancora sposato sua figlia, come si erano accordati, mentre gli altri principi furono istigati alla ribellione dalla mercenaria Venezia, che avrebbe guadagnato nella guerra tra le due potenze, turchi e albanesi, commerciando con entrambi) Giorgio si rivolse a Napoli e siglò il trattato di “vassallaggio” (“Capituli inhibiti et firmati tra la Serenissima Maestà de lo Serenissimo Don Alfonso Re d’Aragona, de Sicilia citra et ultra Farum da una parte e lo venerabile patre in X domno Stephano Episcoco de Croya e lo religioso Maestro Nicola de Berguzzi del ordine de Santo Domeneco oratore et ambassiatore de lo spectabile et magnifico Zorgio Castrioti signore de la ditta citade de Croya e dei suoi parenti baroni in Albania de la parte altera […]”, atti reperiti all’Archivio di Barcellona dallo storico arbereshe Italo Elmo) che tanto malcontento portò nelle fila dei già dissidenti principi albanesi, ma che gli garantì aiuto armato ed economico.
Il trattato risultò maggiormente vantaggioso per Alfonso V, il quale s’impegnava comunque a mandare le sue truppe in Albania ed a firmare singoli trattati con tutti i Principi disposti ad accordarsi. Il Castriota avrebbe ceduto sulla carta non solo la terra e la città di Croya ma anche “tucto quello che el dicto S. Giorgio ha et haverrà serrà a comando et ordinacione de la predicta Maiestà e dei soi officiali”, e si sarebbe impegnato a fare atto di vassallaggio verso Alfonso V ed a pagargli un “tributo”, ossia un “Kharatsch”, “daranno e pagheranno ciascun anno alla prefata Maiestà lo tributo che per lo presente sono tenuti a dare al dicto Turco”, in più tutti i vassalli del Castriota e dei suoi parenti “compreranno lo sale dei fondaci li quali ordinerà la prefata Maiestà a quel prezzo che lo comprano al presente dai fondaci del Turco”, e ancora il Re Alfonso si obbligava “avuto lo dicto paese, mantenire et servare tutti li privilegi de la cità de Croja e de tutto Albano, come hanno fatto tutti li Re d’Albania et manteniri tutti li Signori che serranno subiecti a la predicta Maiestà”.
Due anni più tardi, nel 1453, Maometto II il Conquistatore, successore al trono di Murad II, diede inizio ad uno dei più importanti avvenimenti storici dell’epoca: la presa di Costantinopoli, simbolo del potere dell’oriente cristiano. A fronte di ciò, nel gennaio del 1454 Alfonso V inviò in Albania soldati, fucili, cannoni, carri con vettovaglie e denari per le spese di guerra, nominando inoltre Giorgio Castriota “capitano generale del re d’Aragona”, nomina che mise in allerta Venezia, la quale aveva interesse a che il basso bacino adriatico non fosse egemonizzato dal Re di Napoli.
Alla morte di Alfonso V d’Aragona poco dopo, suo figlio naturale Ferdinando I e suo fratello Giovanni II d’Aragona si divisero il regno: al primo andò il Regno di Napoli e al secondo, già Re di Navarra, la Sicilia. Ma l’ascesa al trono del figlio naturale, chiamato Ferrante, non fu ben accolta: lo zio innescò un clima di incertezza circa la sua legittimità alla successione, e perfino il Papa Callisto III, che segretamente tramava per donare il Regno a suo nipote Pietro Luigi Borgia, contribuì ad inasprire gli animi. L’astio verso Ferrante era nutrito principalmente per la sua tendenza “accentratrice”: egli voleva limitare il potere dei signori e dei principi, centralizzandolo nella figura del Re, e proponeva di attuale un regime politico meno “spagnolo” e più “nazionale”. Dopo l’incoronazione, avvenuta nel1459, ben presto Ferrante si trovò a dover difendere il suo Regno non solo dai suoi Principi, (il Principe di Taranto, Giovanni Antonio Orsini; il Conte di Catanzaro e marchese di Crotone, Antonio Centelles Centiglia, il Principe di Rossano e duca di Sessa, Marino Marzano), ma anche dal Duca di Lorena Giovanni d’Angiò di Renato, appoggiato da uno dei migliori condottieri italiani del tempo, il mercenario capitano Giacomo Piccinino. Il d’Angiò ebbe via libera in Puglia e in diverse altre zone per cui a Ferrante, con l’appoggio del Duca Francesco Sforza di Milano, non restò che scendere in guerra, anche se con scarse prospettive di vittoria. Ben presto infatti Ferrante, dopo aver perso numerose battaglie, fu assediato a Barletta.
L’amico albanese del padre però non poté assistere inerme alla sconfitta del figlio del suo più antico e fedele alleato e con il suo corpo di seicento cavalieri scelti ed alcune migliaia di soldati passò l’Adriatico. C’è da puntualizzare che gli intenti del Castriota non furono dettati esclusivamente dalla nobiltà di sentimenti: egli aveva interesse a perpetuare l’alleanza col Regno di Napoli, in visione di una prossima battaglia contro i Turchi. Dopo una breve visita a Ragusa, altra sua alleata, Giorgio fece vela per Barletta, dove con cinque navi sbarcò una prima volta nel 1460, con due corpi a cavallo comandati da Goico (Giorgio) Stresio, suo nipote, e una seconda volta, alla fine di agosto del 1461, con lui stesso a capo di un esercito di circa duemila uomini. Al suo arrivo, il Piccinino arretrò la linea del suo schieramento. Girogio fece di Barletta la base delle sue operazioni, rivoltandosi inizialmente contro il Principe Orsini, il quale, dopo aver perso tante battaglie, fu costretto a domandar tregua. Seguì la volta di Trani e successivamente la vittoriosa battaglia di Orsara contro il duca d’Angiò, decisiva per le sorti di Re Ferrante. Molti storici sono concordi nel ritenere che l’intervento di Giorgio sia stato determinante per il successo finale del re di Napoli il quale, grato per i favori ricevuti, concesse in Signoria a Scanderbeg “Albaniiae Dominus et Locumtenens noster generalis tamquam pater carissimus” alcuni paesi e castelli in Puglia, ove il 14 aprile 1464 il Castriota prestò giuramento al Sovrano in qualità di feudatario del regno: “Illustris Dominus Georgius Castriota dictus Scanderbech Albaniae Dominus ac factus novus Dominus terrarum Montis Sancti Angeli et Sancti Joannis Rotundi personaliter prestitit in manibus Domini Regis in forma solemni et consueta ligium homagium […] in Castello Novo civitatis Neapolis die XIIII aprilis MCCCLXIIII” (Monti, pag. 311) il feudo di Monte Sant’Angelo e di San Giovanni Rotondo diventando, così, un “signore italiano”, e più tardi la predetta donazione, il giorno 2 agosto 1485, fu sostituita “de tali excambio novoque dominio” con quella del feudo di Soleto e quello di San Pietro in Galatina, dove, dopo la morte di Giorgio, troverà rifugio il figlio Giovanni Castriota, con il titolo di Duca, insieme alla sua famiglia e alcuni albanesi al suo seguito, dando origine a ciò che è ancora riscontrabile in più di cinquanta comuni italiani.
Conosco sommariamente alcune idee di un ”esimio professore siculo”, prestatemi da mio padre Vincenzo Librandi e dalle quali mi riservo di dissentire, a proposito dei principi al seguito di Giorgio Castriota, e dei Coronei, dei quali un più approfondito e curato studio è da tributare allo storico Italo Elmo, che ha individuato e messo a disposizione di tutti gli studiosi interessati alcuni inediti documenti, reperiti negli archivi di diverse città spagnole.
Noi arbereshe, un popolo in fuga, giunti in Italia al seguito della famiglia Castriota, che continuiamo ancora oggi a rimanere attaccati alla nostra più antica tradizione, dobbiamo andare fieri di aver lasciato segni indelebili in questa nostra povera regione del Sud Italia, la Calabria. Un popolo, il nostro, ancora attaccato alla propria realtà e alle proprie tradizioni, insediato nelle nostre gjtonie, un quartiere in cui si svolgeva e tuttora si svolge la vita sociale degli abitanti. Nella speranza che secoli di sacrifici nel tentare di preservare e conservare una cultura di minoranza che ha dello straordinario, non siano vani, l’appello è quello di fare fronte comune, non di contestarsi a vicenda, e cercare di coinvolgere i giovani, spogliandoli del pregiudizio dell’inesperienza ma programmando per loro una crescita culturale, per evitare di arrivare al punto in cui l’unica azione da compiere sarà raccogliere i cocci del collettivo che per motivi individuali non siamo riusciti a proteggere.
Francesca Librandi



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